Riflessioni libere sull’esperienza della conduzione di un Corso di Sensibilizzazione

Decantate le famose emozioni del corso appena svoltosi a Modena, una intera settimana a fine gennaio scorso, mi ritrovo a pensare, a ri-pensare a quella esperienza di conduzione e ad alcuni aspetti peculiari per quella che, a mio avviso, rappresenta una sperimentazione utile a una possibile svolta nei programmi di ecologia sociale antropospirituale, ancor prima di ritrovarci per la verifica su quanti di quei corsisti vorranno impegnarsi per il servizio.

Nulla accade per caso e proprio oggi si svolgerà la Scuola Primaria, organizzata dal gruppo padovano legato a Eurocare Italia, cui cerco di partecipare appena mi è possibile, dal titolo singolare “AlcolDualismoControlloquale rapporto tra curante e curato? Tra servitore e servito?”.

Argomenti assai interessanti che mi riportano alla settimana del corso in cui si è molto lavorato sulle criticità del pensiero dualistico forgiante la nostra cultura, quella di cui pure i club sono permeati senza aver sviluppato quella capacità trasformativa di hudoliniana memoria ma, al contrario, costruendo al proprio interno una tranquilla casa da abitare. Ogni giorno, durante le lezioni frontali e i momenti comunitari questa difficoltà nell’azione agita è emersa e il legame forte tra Alcol/Dualismo/Controllo è apparso nella sua tragica dimensione reale. È molto facile, ad esempio, lavorare sulle emozioni che scaturiscono dalle relazioni sia fra corsisti che fra membri dello staff, mentre risulta molto più impegnativo raccordarsi con un pensiero evolutivo o con riflessioni che nascono dall’elaborazione comunitaria non solo di dati e conoscenze, ma pure di dubbi e domande spesso restate senza risposte. 

Il restare in bilico sul filo teso e precario delle fragilità, da quelle formali che le molte modifiche al programma ci hanno costretto a compiere, ma pure propedeutiche ad una flessibilità mai scontata, a quelle più ontologiche, sociali e politiche che i vari contenuti trattati ci han posto in fronte, hanno favorito, infatti, una duttilità intellettuale che si è rispecchiata più sul linguaggio a tratti irriverente dell’ironia anziché su quello emotivo del ‘pianto’.

Ma forse è importante ricordare che il corso è nato non senza difficoltà nel periodo pre-Covid. Rinviato più volte, ci ha costretto a ripensarlo contingentandolo all’attualità storica del presente e non avulso dalla stessa tragicità che la pandemia ha scoperchiato, partendo dal malessere individuale, a quello comunitario e di cui l’Alcol rappresenta una icona perfetta. Si pensi, giusto per maggior chiarezza, a quanta depressione, aggressività ed ansia incontriamo nell’altro e in noi e quanto la stessa società si è fatta ansiogena ed aggressiva. Si pensi a quanta povertà serpeggia e a quanta ingiustizia, anche quella legale, esiste nel mondo. 

Tutti argomenti vissuti durante il corso e che mi fanno pensare che si potrebbe parlare di Cura dell’Anima. In fondo il servizio che il club offre è quello di una cura. Certo una cura particolare, non farmacologica, ma allo stesso tempo spogliata di quell’assunto retorico e negativizzante, che abbiamo noi stessi creato, autobastandoci in una posizione alquanto supponente e presuntuosa. Ce lo dicono le parole di Maria Inglese, psichiatra territoriale, studiosa basagliana e molto altro, invitata a tenere una lezione proprio su questo argomento, pur non essendo servitrice insegnante di club. Un incontro, quello con Maria, di grande spessore umano e culturale. Una lezione, la sua, di mirabile sintesi ecologica e ponte verso nuove sperimentazioni, in cui il termine Cura veste abiti nuovi e dignitosi. Troppo spesso infatti abbiamo licenziato senza giusta causa una terminologia senza averne elaborato i contenuti e, cosa assai più grave, l’abbiamo sostituita con slogan privi di ogni senso. 

Mi riferisco, ad esempio, alla funzione altamente terapeutica del club nel suo etimo più letterale. 

Mi riferisco a quell’isolamento autoreferenziale che spesso, in nome di quella conoscenza esclusivamente esperienziale, i club abitano, salvo poi accedere velocemente agli specialisti della salute attraverso meccanismi deleganti di vetusta abitudine, appena le cose si mettono male, per dirla pauperisticamente. C’è, credo, bisogno di maggiore assertività anche attraverso lo studio e la piena e reale contaminazione reciproca tra i cosiddetti saperi, senza cesura alcuna. Ritorno, in tal senso anche al coinvolgimento, voluto e rincorso con grande passione, della partecipazione al corso di quella fetta di operatori sociosanitari che, da ormai tanto tempo, snobbano il messaggio hudoliniano che potenzialmente si connota come quello di una grande trasformazione culturale. E proprio lavorando sulla sensibilizzazione culturale attraverso una forte mediazione equilibrata, siamo riusciti ad avere una presenza di corsisti equamente distribuita su fasce di popolazione varia e su professionalità varie. Ciò ha comportato certamente fatica, ma una fatica ricompensata dal messaggio di un forte coinvolgimento comunitario. E certamente era da subito evidente che la panca su cui si stava era traballante e insicura, ma penso che parlare di percorsi e processi evolutivi implichi necessariamente questo passaggio non del tutto scontato, poiché ci siamo adagiati su una narrazione fin troppo retoricamente aulica dove ci si presenta come “primi della classe” ma terribilmente immaturi e impreparati ad una autentica co-evoluzione culturale.

Mi riferisco anche al senso politico che il messaggio hudoliniano comporta. Quasi una conformazione ontologica che si fa deontologica nel suo esprimersi attraverso il lavoro del club, della formazione e di quel sistema di cura che va pensato o ripensato nella sua futura attuazione e attualizzazione. Da tempo immemorabile sento dichiarazioni, onestamente fastidiose, che tendono a confondere la partitocrazia nella politica o a inneggiare il sentimento antipolitico quale valore autentico di una società liberata e liberante. Non credo sia utile demonizzare o banalizzare il pensiero politico a queste suggestioni. Banalizzeremmo tutto un lavoro prezioso di crescita e maturazione culturale che lo strumento del club ha rappresentato come grido rivoltoso, o se preferite, come un canto rivoltoso per scuotere il pensiero e la coscienza critica. Il bel titolo del prossimo congresso sulla antropospiritualità ce lo ricorda bene: “Grati, resistenti e giusti per umanesimo fraterno”. Le parole autorevoli di Francesco nelle sue encicliche lo ricordano bene. 

Il club diviene quindi un luogo in cui si sperimenta un percorso di liberazione insieme agli altri e in cui la sobrietà va intesa come la rivisitazione del piacere nel percorso di liberazione e non come la condizione esistenziale che rimuove l’inquietudine in nome di un presupponente ascetismo vitale. Tali si sono tradotte le due lezioni sull’etica e la spiritualità, trasformatesi poi in un duetto dialogante tra Valentino Patussi e Franco Marcomini, da noi ben conosciuti, che hanno stimolato molti dubbi, soprattutto in coloro che, come loro, lavorano o hanno lavorato nei servizi pubblici. Tale, inoltre, è stato il messaggio forte e chiaro di tutta la tavola rotonda cosiddetta istituzionale in cui, partendo dal ricordo della battaglia di Salamina ci si è preso l’impegno di un processo comune di trasformazione. Un lavoro, insomma di rammendo e creazione. Così mi piace immaginarlo, con termini presi a prestito da un passato femminile da non cancellare ma da rifare proprio, attualizzandolo con amorevolezza ed erotico accudimento. E tali sono state le scelte sulla presentazione di slides che raccontavano anche la politica, l’ambiente e molto altro che, nell’oggi, vanno studiate come substrato culturale anche del lavoro stesso.

E infine mi riferisco ai programmi formativi del sistema hudoliniano, penso, da rivedere nel profondo a cominciare dalle tempistiche, dalla richiesta necessaria e significante economica del giusto, dalla convivialità, dall’uso o meno di alcune scelte linguistiche che si fanno contenuti, dai contenuti stessi che siano in grado di modificarsi via via e di volta in volta, dalla composizione delle equipes che compongono i vari momenti formativi e lo stesso modus operandi. Da tutto ciò, insomma, che mi ha fortemente fatto scegliere, condividendo con altri ed altre questa riflessione, di lasciare al prof Hudolin e solo a lui la paternità del suo metodo, con quella accezione di rispetto verso un messaggio rivoltoso che ci ha lasciato come cespite ereditario da far crescere, con quello stile rispettoso di ogni diversità, affinché l’approccio ecologico-sociale, pur sulla base di una scala musicale basica, si faccia polifonia di canto.

Lorena Carpi

Gennaio-Febbraio 2024