La pace nel cuore. Tra il Dire e il Fare c’è di mezzo l’A-Mare

Pochissimi pensieri sparsi che si connetteranno, confido, con gli ulteriori che stiamo sviluppando, perché mentre li annoto (e li propongo) li sento sfaldarsi e sfuggire. Ma siamo qui insieme per prestarci cura e attenzione.

Se dico “pace del cuore” specifico e attribuisco una sfumatura di appartenenza, se dico “pace nel cuore”, indico un luogo, un posto dove farla abitare. Non so se posso appropriarmi della pace o la devo lasciare andare, se la devo difendere o spargere d’intorno. Sapremo insieme vedere altre vie e altre vite, con più diramazioni oltre a queste dicotomie che mi tentano e mi confondono.

Oltre che nello spazio, questa pace deve svolgersi nel tempo, per non soggiacere alla dittatura delle cose dello spazio, dei beni effimeri anche se ingombranti (grossi e/o pesanti) che ci zavorrano e ci rendono goffi. E poiché il tempo, come la vita, non appartiene a nessuno, nonostante siamo abituati a misurarlo, a usarlo come strumento di misura, possiamo provare a non privatizzare e a delimitare la pace, a non farne un vessillo o una difesa, ma coscienza da abitare attraverso la dimora provvisoria del corpo che incorpora la mente, entrambi in continua metamorfosi, evoluzione, personale e relazionale.

Allora la pace si connette con la libertà, mai definibile una volta per tutte, inafferrabile come la verità, indifendibile se in suo nome commettiamo crimini, conserviamo posizioni, non siamo disposti a tradire, anche nell’esitazione.

Una piccola nota sul vocabolo “mare” nella lingua che per me è da a-mare. In spagnolo il sostantivo /mare/, la grande massa di acqua, si esprime in senso generale al maschile, el mar. Quando però a parlarne sono le genti di mare, i pescatori o chi vive sulle sue rive o ci si spinge al largo per trarne sostentamento, la parola si declina al femminile, la mar. Così la usano anche i poeti, cantando il flusso ripetuto e mai uguale delle sue onde.

Quando si traduce, si è chiamati a praticare la responsabilità della parola giusta, che dopo molti dubbi ed esitazioni finisce per essere una, anche per ragioni espressive, che scaturiscono dal laboratorio artigianale che si rinnova dopo la confusione di Babele, casa comune della diversità, del molteplice, da vivere come risorsa e non maledizione. Per vivere la pace dopo la tracotanza dell’affronto a Dio. 

Dunque questo a-mar di mezzo, che sta intra, a noi gettati nell’esistenza, indica la nostra natura condizionata e turbolenta che fatichiamo a condurre, illusi cibernauti, naviganti disorientati da sirene fallaci che ci distolgono dal mistero della vita e dell’amore.