La distorsione dell’azienda Bottega e altre strategie nei programmi di Responsabilità Sociale d’Impresa dell’industria dell’alcol

Il mondo dell’industria sostiene da sempre di impegnarsi per dare un contributo concreto alla riduzione dei problemi legati al consumo di alcol attraverso i cosiddetti programmi sulla Responsabilità Sociale delle Imprese (RSI). Obiettivo dichiarato sarebbe quello di promuovere un consumo “moderato” e “responsabile” di alcol a tutela dei consumatori. Per farlo, nel corso del tempo ha costruito collaborazioni importanti e trasversali tra settori pubblici e privati, enti governativi, scienziati, organizzazioni di comunità, per incoraggiare iniziative di sensibilizzazione e implementare interventi sostenibili. 

Intenti senz’altro nobili, se non fosse per un dettaglio, tanto banale quanto spesso trascurato: la riduzione dei danni alcolcorrelati ha a che fare con la riduzione dei consumi di alcol nella popolazione. E la riduzione dei consumi nella popolazione ha a che fare con la riduzione delle vendite e dei profitti. Un paradosso quello della RSI che lascia quantomeno supporre varie forme di condizionamento e l’impossibilità di potersi muovere ed esprimere in un modo davvero libero e disinteressato tra scienza, coscienza e portafoglio. 

Nonostante gli obiettivi dichiarati di tali iniziative riguardino la tutela della salute e della sicurezza del consumatore, infatti, gli effetti ottenuti vanno in tutt’altra direzione: da una parte rappresentano un ulteriore potenziamento dell’attività di marketing, migliorando l’immagine pubblica dell’industria e contribuendo al consolidamento della distinzione tra consumo “moderato” e consumo “dannoso”, e dall’altra agiscono a tutela di quel consenso sociale e culturale nei confronti del bere che a sua volta diventa strumento di pressione e orientamento delle scelte politiche e legislative. 

I limiti degli interventi appaiono evidenti: è stato dimostrato che più del 90% delle azioni dell’industria infatti manca di supporto scientifico ed il 25% risulta essere in realtà un’attività potenzialmente promozionale di un marchio o prodotto. Le azioni di RSI ben si guardano dal sostenere misure che sarebbero realmente sostanziali ed efficaci come i Migliori Acquisti (Best Buys) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ossia l’aumento della tassazione sulle bevande alcoliche, maggiori restrizioni in merito ala pubblicità e limitazioni alla disponibilità fisica di alcolici al dettaglio.

L’interferenza del mondo dell’industria con il raggiungimento di obiettivi di salute pubblica a livello globale è ormai cosa nota. Da tempo i produttori stanno cercando di diventare fonti autorevoli di consulenza per politici e consumatori, anche attraverso il finanziamento della ricerca, e i tentativi di divulgare un’informazione corretta vengono costantemente ostacolati dalla potenza comunicativa e di lobby di un sistema in cui le azioni dei portatori di interesse (e quelle di RSI giocano in questo un ruolo importante) sono sempre più interconnesse e reciprocamente potenziate. Tale interferenza infatti non si realizza solo partecipando in prima persona all’agenda politica delle istituzioni nazionali e internazionali, ma anche influenzando il discorso pubblico attraverso precise strategie comunicative a sostegno della retorica della normalizzazione e dei benefici del bere e del valore storico e culturale di alcuni prodotti in particolare.

Le stesse definizioni di bere “moderato” e “responsabile”, va detto, non appartengono all’ambito clinico e sanitario ma a quello dell’industria e del marketing e rappresentano un pilastro anche nelle azioni di RSI. Sono concetti volutamente ambigui e indefiniti, che contano sul naturale desiderio di ciascuno di mantenere un’immagine positiva di sé e sulla tendenza di nessuno a considerarsi un irresponsabile. Vengono utilizzati in netta contrapposizione all’”abuso”, termine già eliminato dai documenti ufficiali internazionali ma ancora molto diffuso, anche tra i sanitari, che richiama una modalità di consumo eccessiva e dannosa in cui, anche in virtù della sua indefinitezza, nessuno si riconosce. 

A livello comunicativo, esistono diverse strategie discorsive che vengono utilizzate dall’industria per proteggere la propria immagine, a volte per valorizzarla in quanto partner cooperativo nei programmi di sensibilizzazione e di RSI. Tra questi ci sono la distinzione, la distorsione e la distrazione, usate in modo velato e continuativo per alimentare una retorica che minimizzi l’impatto dell’alcol sulla salute e la sicurezza e valorizzi alcuni prodotti.

La distinzione, per esempio, consente di creare una differenziazione fittizia tra diversi tipi di bevande alcoliche. Ultimamente ha avuto molta risonanza il messaggio «In Italia si beve il buon vino, non i superalcolici come in Irlanda», discorso finalizzato a proteggere l’immagine di un prodotto a scapito di un altro, che trascura completamente la definizione di Unità Alcolica dell’OMS e il fatto che la tossicità dell’alcol sia caratteristica della molecola di etanolo e non della bevanda che la contiene.

Le recenti dichiarazioni dell’imprenditore Sandro Bottega, «L’alcol dunque fa male ma, se consumato in quantità moderata, è un male che il nostro corpo riesce a tollerare bene» o «Siamo sempre stati sensibili al concetto “bere bene fa bene”», sono un esempio di come l’inequivocabile evidenza sulla tossicità dell’alcol possa diventare facilmente oggetto di distorsione ed essere ammorbidita per giustificare una scelta aziendale. Scelta evidentemente discutibile, cioè riportare in etichetta non un’informazione sulla salute, ma un suggerimento su come “bere bene”: «Vi suggeriamo un consumo massimo giornaliero di due calici» (il messaggio non solo generalizza un’informazione sul consumo a basso rischio che in realtà riguarda solo gli uomini, ma circoscrive il discorso al vino, dando per scontato che durante la giornata non si consumino altri tipi di bevande alcoliche). Un’iniziativa che, nel suo piccolo, mette in evidenza tutti i limiti della RSI.

La retorica del «E allora cosa mi dici di… (della carne rossa, dell’inquinamento, degli zuccheri, …)?» rientra nella strategia della distrazione, con cui si cerca di considerare altri fattori di rischio come più importanti. Spesso questi argomenti vengono introdotti nel dibattito sui danni alcolcorrelati, pur non avendoci nulla a che fare, semplicemente per distogliere l’attenzione dal tema centrale. Esistono senz’altro altri fattori di rischio per la salute, molti sono a loro volta già oggetto di azioni di sensibilizzazione, ma questo non rende il consumo di bevande alcoliche più salutare. 

Queste e tante altre strategie, già oggetto di studi e pubblicazioni internazionali, concorrono a mantenere il consumo di alcol dentro una dimensione di normalità e desiderabilità. E lo fanno in un modo così sottile e silenzioso da rendere necessario tenere occhi, orecchie e mente aperti alla critica e alla consapevolezza.