Vita e Natura. Etica ed ecologia del diritto.
Vita e Natura. Etica ed ecologia del diritto, ovvero accogliere e farsi scuotere dal Perturbante, destigmatizzando la diversità in un percorso di cura che restituisce la parola ai silenziati dalla presunzione della normalità.
I club, comunità relazionali nella condivisione, sono pronti a cambiare la cultura del diritto individuale ed egocentrico, estraneo alla centralità del bene comune?
Come fare, tra scienza, esperienza, politica ed apprendimento?
Ho pensato che qualche riflessione sull’uso della lingua, o meglio sull’apprendimento di una lingua diversa da quella in cui ci troviamo gettati per nascita, possa suscitare qualche curiosità in questa giornata di seminario. Come sempre, nulla di definitivo né di chiaro, ma molta fiducia nel percorso di bene comune: nell’apparente monolinguismo in cui ci esprimiamo, sperimentiamo l’incomprensione, le vie difficili dell’alterità, ma scegliamo di rimanere nel dialogo.
Per quanto riguarda il termine perturbante [inquietante, non familiare] mi è piaciuto seguire il tragitto freudiano attraverso alcune lingue storiche europee, per esplorare “questa particolare sfumatura dello spaventoso” che èdas Unheimliche. Il riferimento è al saggio del 1919 tradotto in italiano come Il perturbante.
Per quanto riguarda lo spagnolo, posso solo riferirmi ai dizionari attuali di uso corrente, rispetto al bilingue tedesco-spagnolo Tollhausen edito nel 1889 citato da Freud.
La mia esperienza nel percorso di apprendimento della lingua spagnola mi ha portato fin dall’esordio a consultare il Diccionario della Real Academia, più di un equivalente della Crusca italiana, molto più viva e vivace, appena ingessata, certo, come tutte le accademie, per il suo carattere normativo, ma anche sensibile alla lingua viva e disposta ad accogliere gli usi reali della lingua stessa. Lettera e spirito cercano un incontro. Pongo l’accento sul fatto che sia un monolingue e sull’utilità che ritengo abbia anche per un cosiddetto principiante.
Impossibile, dopo Babele, aspirare all’unicità di una lingua e intravvediamo nell’imperialismo linguistico, il grande sterminatore di molte lingue altre e diverse, la colonizzazione e la desertificazione lungo i secoli di idiomi e dei loro parlanti. Solo si chiede a colui che apprende l’impegno a non volersi affidare a scorciatoie, per far intravvedere alla mente sconcertata, perturbata, di quanti si avviano allo studio, almeno per un breve tempo, frammenti della visione del mondo linguistico cui si affacciano. Solo un punto di partenza, perché i vocabolari sono anche cimiteri del lessico, mi pare dicesse Heidegger. Occorre poi provare ad intessere relazioni tra la lingua di partenza e le altre che si vuole provare a conoscere; non sempre sappiamo quale sia il metodo migliore. Di certo per coglierne il messaggio serve anche immergersi nell’immaginazione, nel gioco dei suoni, nelle assonanze e dissonanze, nella fantasia, nel rischio di sbagliare, resistere alle tentazioni dei “falsi amici” – quei lemmi o frasi di uguale grafia o suono in due lingue, ma significato diverso – utili a smontare lo schema dell’equivalenza di oggetti e concetti uguali per tutti i parlanti.
Piccole azioni incarnate, potremmo dire, dopo la scuola di giovedì 9 febbraio che ci ha portato a riflettere anche sulle nostre capacità sensoriali e sui micro-mondi che attiviamo in diverse situazioni. Un caso di immediatezza delle abilità, che precedono le riflessioni più strutturate sulla grammatica, sistema normativo, morale o logico, potremmo dire forzando l’analogia con quanto stiamo apprendendo di come esplora azione ed etica Francisco Varela, propostoci da Alina.
E ancora, abbandonarci al canto, alla musica, alla poesia, come apprese per parte materna dal “nostro” Francesco e che a noi ne ha fatto dono. E, come lui, tutti siamo meticci e misti, imprevedibili mescolanze di genitori erranti. E tristemente smemorati al proposito.
Come sarebbe rivoltoso farci carico, per esempio, delle lingue di chi, stremato, raggiunge con vita i patrii lidi, porgendo poi con gentilezza la possibilità di apprendere anche quella che noi parliamo. Senza scandalo. Perché, come osserva la filosofa Donatella Di Cesare, anche la lingua materna non è affatto “nostra”, mai arriviamo a possederla e tutti gli equivoci generati dall’incomprensione lo testimoniano. “La lingua vieta e interdice la proprietà”.
E così, osservandomi dentro al linguaggio che parliamo e ascoltiamo al Club, ai silenzi, ai trattenimenti, sperimento la mia difficoltà e le mie incertezze a fondermi in un autentico ascolto e dialogo per le ineludibili differenze che ci sforziamo di considerare e per la carica perturbante, straniante, con cui talvolta si manifestano. La fatica sta nel riconoscere i tratti di una familiarità celata che vivono in me, i soprassalti ad una disposizione ordinata e sovra-regolata, del supposto sano giudizio di fronte a spropositi che mi sembrano intessere le narrazioni che mi circondano. Creazioni linguistiche che a volte mantengono toni onirici, fantastici, che combinano elementi di tempi passati come accaduti nel momento del loro stesso dire. Difficile accogliere, ospitare, farsi solidali, accettare di passare il confine di un ordine del discorso che talvolta traccia esso stesso un fossato che divide, facendo emergere, attraverso la spia di un “noi”, una separazione difesa con il pretesto di una condizione di malattia. Quella stessa che si adduce per non partecipare con regolarità agli incontri di Club, percependoli come noiosi o poco gratificanti, nella fluttuante accettazione di un percorso che nulla prescrive, nulla promette, ma si fa responsabilmente esigente per ciascuno, senza limiti di tempo, nel trascorrere mutevole che si manifesta attraverso ogni vivente, di cui l’umano si riconosce a stento nudo e fragile, pericoloso e arrogante.
Forse più perturbata che orientata eticamente, mi dispongo al prosieguo di questa giornata di condivisione e convivialità.