Un bevitore leggendario

“…non era bene vedere con i propri occhi la propria rovina”
Joseph Roth, “La leggenda del santo bevitore”

La recente polemica mediatica originatasi in Italia in seguito all’introduzione nella legislazione irlandese delle etichette informative circa la tossicità dell’alcol etilico e quindi ai pericoli per la salute generale di chiunque scelga di consumare bevande alcoliche in qualsivoglia quantità, appare – nelle accese reazioni contrarie – strumentale, enfatica, deformante la realtà e pertanto, a mio parere, indecorosa.

Consapevole della necessità di non cedere alla protervia e all’asservimento, ho vissuto il desiderio di curiosare fra i libri dimenticati per rileggere un breve racconto di Joseph Roth, La leggenda del santo bevitore. L’ho trovato bello e nobile, pieno di desolazione, mai disperato. Un testo definito dalla critica autobiografico: categoria sufficiente per alludere alla connessione dello scrittore con la realtà del consumo di alcol esperita in prima persona. Un qui-ed-ora che travalica il secolo scorso per raccontare di solitudine, imbarazzi, vergogna, perturbamento, dissipazione, dono e restituzione. Poche pagine intense in cui il protagonista Andreas, un “emarginato” coinvolto in un crescendo di situazioni che sembrano confermare la predittività e al tempo incarnare un’ontologia delle sue abitudini, del suo stile di vita, incontra senza mai fuggirli altri compagni di strada e di sosta nei bistrot parigini del 1934. Incontri che non evolvono in legami di amicizia. Incontri che appagano il desiderio sessuale ma non coltivano eros. Beve, Andreas, e con lui bevono gli altri personaggi, simmetricamente. L’alcol è la cifra costante dei loro scambi, segno di potenza effimera, illusoria e dissipativa di vita e di denaro, altro indicatore che scandisce il loro agire. Il dono di denaro che dà inizio alla storia del narratore-narrato Roth segnerà al pari delle bevute il tempo del racconto. L’elargizione, che si fa presto trasferimento di un debito, rende possibile una gratuità altra, complementare, percepita come “miracolosa” da Andreas. Vacillando da una procrastinazione all’altra, da una ricaduta alla successiva, che svelano l’impossibilità del controllo sui propri dèmoni, egli troverà la grazia che sanerà il disequilibrio strutturale della sua esistenza e della comunità relazionale che lo scrittore ci ha presentato.

Certo, Andreas è nelle parole di Roth, “un bevitore, anzi un ubriacone”, non un bevitore moderato, controllato, scevro da eccessi. È un espulso senza documenti, senza permesso di soggiorno, un vagabondo, non un cittadino regolare; non possiede una casa e vive sotto i ponti della Senna parigina. 

Cosa sembra connettere scienziati, docenti universitari, medici di medicina generale, psichiatri, psicologi, operatori socio-sanitari, sociologi, pedagoghi, produttori vitivinicoli e del settore agroalimentare, ad un personaggio come Andreas? E quale legame intercorre fra i consumatori moderati od occasionali e costui? Quale fondamento scientifico in metri e misure, in parametri strumentali che pretendono di categorizzare i consumi e quindi i profitti? Come strutturiamo le nostre abitudini e quanto ci costa convertirle? 

Sono un’apprendista in ricerca che ha aderito alla proposta rivolta a tutti i partecipanti ai Club di astenersi dall’uso di bevande alcoliche, di condividere la “conta dei giorni” che si ripete settimanalmente per tutti e per ciascuno, oltre ad ulteriori comportamenti riconosciuti come mortificanti le relazioni vitali. Non mi sento castigata nella rinuncia all’alcol. Molto mi resta da percorrere. 

Buon cammino e buona conoscenza.