Etica, Itaca, Viaggio.

Etica, Itaca, Viaggio, nel percorso trasformativo di identità costantemente mutevoli e cangianti: sovversione per tradizioni consolidate, riscoperta del già conosciuto in piccoli dettagli evolutivi, svelanti sorprendenti orizzonti di senso.

Etica in una prospettiva liberante, in un viaggio spinto da venti impetuosi e interdetto da bonacce stagnanti evocanti porti sicuri. Etica nella rottura del già noto, scoprendo altro possibile in un mondo mai immaginato, tranne che in splendidi scenari sognati ed utopici, disegnati dalla vitalità erotica e concreta, sconfinante dai solidi rituali della morale asservita al potere costituente normalità posticce da idolatrare.

Etica, Itaca, Viaggio; la Bellezza, la Verità, la Giustizia dell’inedito svelato con passione e coraggio.

LA POESIA COME MESSAGGIO CHE TRASCENDE

“Si quieres saber algo del mar, vuelve otra vez, poco pescador y un tanto pez.”

Se vuoi sapere qualcosa del mare, torna, se ti riesce, poco pescatore e molto pesce.

Antonio Machado

Non so molto di poesia, vive con me da qualche parte, come un bagaglio stipato, schiacciato, sepolto.

Ma la poesia è una preziosità dell’umano toccato dallo spirito che va frequentata con maggiore curiosità e assiduità. Franco Marcomini mi ha porto la suggestione di Antonio Machado, il poeta spagnolo, andaluso di Siviglia dove nacque nel 1875, autore di centinaia di testi poetici in cui osserva e canta la terra, il mare, i fenomeni della realtà che osserva e in cui si comprende, facendo sfumare le tonalità di sé in un più ampio sentire: un modo di incarnare la trascendenza.

I versi che desidero proporvi sono noti e ripetuti in molti contesti e ci dicono qualcosa sul cammino, sull’andare, sull’inconsistenza della metà e dell’approdo, sulla vacuità e sull’effimero. In qualche modo sono affini e coevi a “Itaca” (1911) di Konstantinos Kavafis, intessuti nel lungo titolo del seminario odierno.

Ecco dunque i dieci versi di Machado che compongono tre strofe, prima nell’originale spagnolo della raccoltaProverbios y cantares del 1912, poi nella traduzione italiana di Antonio Prete, con l’aggiunta di una mia variante relativa ad una terzina.

Caminante, son tus huellas

el camino, y nada más;

caminante, no hay camino,

se hace camino al andar.

Al andar se hace camino, 

y al volver la vista atrás

se ve la senda que nunca

se ha de volver a pisar.

Caminante, no hay camino, 

sino estelas en la mar.

Viandante, sono le tue impronte 

il cammino, e niente più, 

viandante, non c’è cammino, 

il cammino si fa andando.

Andando si fa il cammino,

e nel rivolger lo sguardo – e nel volgere [indietro] lo sguardo

ecco il sentiero che mai – [ecco] si vede il sentiero

si tornerà a rifare. – che non si deve tornare a percorrere

Viandante, non c’è cammino, 

soltanto scie sul mare. 

La mia parte di traduzione è più letterale non solo per aderire alla grammatica (haber de è una forma verbale che indica “obbligo”), ma per evidenziare il patto di corresponsabilità non giudicante ma liberante che la cura indica, segnala allo sguardo di curante e richiedente cura, così come li abbiamo nominati. È l’apertura allo spazio spogliato dalla condanna del giudizio e ricco di misericordia, come commenta papa Francesco nel 2016 al Vangelo cosiddetto dell’adultera (Gv 8, 1-11): una strada sgombra dalle pietre (della lapidazione) per proseguire il cammino. Che sappiamo costellato di ricadute, di cui spesso non cogliamo il fulgore.

I paesaggi di Machado sono in larga parte quelli della Castiglia assolata e arida, brulla nell’estate e altrettanto aspra negli inverni freddi. I suoi compagni di cammino nel contesto della vita professionale sono i colleghi di studio e di ricerca, non solo i “modernisti” latinoamericani in cerca della creatività, della bellezza, dell’arte, ma gli spagnoli delle prime decadi del Novecento, privati delle colonie cubana e filippina e riportati ad una realtà politica luttuosa e desertificata, occupata dal regime di Primo de Rivera, che si impone nel 1923. Molte sono le stazioni dell’errare di Machado in terra spagnola, dal natío sud andaluso a Madrid, dove studia, al nord della Castiglia, nella città di Soria, poi ancora in Andalusia, a Baeza. E ancora, Segovia, Valenza, Barcellona. Affermava di essere estremamente sensibile ai luoghi in cui viveva e da cui le circostanze sembravano spingerlo sempre oltre, in un nomadismo asciutto per approdi e bagaglio. Sempre più spoglio, fino all’esilio brevissimo ma intenso che precede la sua morte nel 1939, a Collioure, in Francia, dove fugge dalla dittatura franchista a guerra civile non ancora conclusa.

Insegnava, Machado, proponendo i testi della letteratura francese che amava e amava gli alunni; ha amato intensamente due donne: una moglie sposata giovanissima e morta dopo tre anni e una seconda persona in una relazione non conforme alla morale sociale e politica. Era la sua amante: ma amante non è forse colei (o colui) che ama?

È un poeta amato da Pasolini delle Poesie a Casarsa (1942) e di Amado mio (postumo, 1993): entrambi non sono moderni e la parte che in entrambi appare da conservare è quella che li lega ai luoghi della vita, alla tradizione linguistica che tuttavia, soprattutto in Pasolini si fa sperimentazione delle lingue romanze minori, come il suo friulano e il catalano, mentre ammira tuttavia “la febbrile lucidità dello spagnolo” in cui si esprime Machado.

La potenza della memoria e la realtà del sogno (lucido?), dopo le molte descrizioni di terre attraversate prende forma, quella forma concreta che la parola poetica forgia, nel testo che abbiamo riportato sopra, quasi una poesia matrice del viaggio, nella singolarità espressiva di Machado.

Innanzitutto c’è l’invocazione al viandante, a colei e a colui cha vanno per la via, che compiono il cammino. In spagnolo caminar, in modo intransitivo, si predica anche di elementi naturali non umani, come i fiumi o i pianeti. E camminando si lasciano huellas, tracce, impronte (noi siamo ormai abituati ai piedi, e piedi calzati, ma altre specie tracciano diversamente il loro passaggio). Quindi arriva la frase che struttura il senso del cammino e della poesia, il richiamo all’evidenza materica delle orme. Null’altro. Il cammino, il percorso è tracciato dai passi, i passi – se si procede – fanno il cammino. Segue il richiamo alla vista, al volgersi indietro: l’immagine è quella del sentiero, via non necessariamente agevole, ma comunque tracciata, percorsa, agita. Non aggiungo altre considerazioni a quanto detto prima, se non uno spunto alla riflessione comune che stiamo già coltivando su quanto del passato ci può muovere al passaggio, senza che si faccia sosta prolungata… 

L’ultima immagine ci conduce dalla terra all’acqua, all’acqua del mare, chiamata qui al femminile: la mar, come dicono coloro che con il mare convivono e perciò ne hanno anche timore prudente. E sul mare le tracce sono estelas, le scie, la spuma che dura un tempo breve, quando l’acqua è mossa da un corpo o da un’imbarcazione.

La nostra poca fede, oltre al vento e alla paura, ci impedisce di camminare sull’acqua… 

Lo stesso Machado ha scritto, nei versi riportati in esergo: “Se vuoi sapere qualcosa del mare, torna – se ti riesce – poco pescatore e molto pesce”. 

Vi ho offerto poco più di una parafrasi, la discussione comunitaria può cominciare anche da questi pensieri, se ritenete che ci siano spunti per continuare ad approssimarci, non a raggiungere. 

Segnalo, concludendo, una densa antologia di Sabino Chialà dal titolo Parole in cammino (Qiqajon – Comunità di Bose, 2006, 2^ ristampa 2011) che propone e commenta numerose poesie sul tema del viaggio.

Buoni viaggi, dentro e fuori la poesia, vitalissima espressione di creatività artigiana, opera insieme di lingua e linguaggio, per cui rendere grazie.

Silvia del Gaudio – aprile 2023