La cultura del bere: marketing e comunicazione

Che la comunicazione di massa, anche nella sua componente commerciale, influenzi orientando e spesso determinando i modelli consumistici e gli stili di vita, non è una novità. 

Ne sa qualcosa l’alcol. Come se non bastasse una tradizione millenaria a saturare il senso comune di false credenze confortanti, il mondo dell’industria investe milioni di euro all’anno in pubblicità (più di 300 in Italia secondo Epicentro) non solo per promuovere brand, ma soprattutto per indurci a pensare che il consumo di alcol sia fonte di benessere, divertimento e successo sociale.  

Fresca di pubblicazione, la seconda edizione del breve ma importante lavoro internazionale “I sette messaggi chiave dell’industria dell’alcol” mette chiaramente in luce come l’industria delle bevande alcoliche sia anche, e soprattutto, un’industria di marketing e svela che l’attività di marketing, generalmente associata alla pubblicità e alle sponsorizzazioni, comprende in realtà un insieme di precise strategie comunicative finalizzate a costruire e consolidare messaggi culturali a favore dei consumi.

A livello legislativo, la pubblicità delle bevande alcoliche è regolamentata dall’art. 13 della L. 125/2001, Legge quadro in materia di alcol e problemi alcolcorrelati. La legge ha disposto l’adozione di un codice di autoregolamentazione e autodisciplina da parte delle industrie produttrici e dei responsabili di emittenti radiotelevisive, organi di stampa e sale cinematografiche. Vieta di associare il consumo di bevande alcoliche ad effetti benefici e terapeutici e di rappresentare minori intenti a bere. Vieta inoltre la pubblicità in contesti sociali o commerciali, o in spazi e tempi radiotelevisivi, dedicati ai minori. Le direttive europee raccomanderebbero anche di non rappresentare l’assunzione di bevande alcoliche in modo positivo, come fonte di successo sociale o sessuale, ma questa associazione, che rappresenta l’anima della pubblicità, visto anche il carattere autogestionale dell’attività di controllo dei contenuti pubblicitari, passa regolarmente.

Tutto questo appariva insufficiente già nei primi anni duemila. Oggi, internet alla mano, appare quasi marginale e irrilevante. La rete rappresenta quel territorio indefinito dove marketing e cultura si incontrano, potenziandosi reciprocamente grazie al contributo più o meno consapevole di tutti.

Nel 2019, Facebook e Instagram hanno attuato un timido e improbabile tentativo di regolamentare la promozione dei prodotti alcolici e del tabacco ma senza spostare di molto l’asticella: il divieto riguarda solo la vendita diretta e non la pubblicità e le regole valgono solo per aziende o gruppi privati e nulla possono nei confronti dei contenuti organici e della pubblicità indiretta agita da privati. In una recente ricerca dell’Università di Chicago, l’analisi di migliaia di post di personaggi noti ha rilevato che l’87% dei cibi e l’89% delle bevande mostrate rientravano nella categoria “prodotti non sani” e, tra le bevande, più della metà delle immagini registrate riguardavano bevande alcoliche. Numerose ricerche ormai evidenziano come i post privati di personaggi famosi e influencer di professione influenzino, oltre a molto altro, anche le scelte e i comportamenti alimentari dei follower, poco cambia che i prodotti mostrati siano sponsorizzati o scelti ed utilizzati spontaneamente, e il consumo di alcol rientra a pieno titolo in questo meccanismo.

Allargando lo sguardo, si nota che buona parte dei contenuti sull’alcol in rete (soprattutto sui social media) non è prodotta dall’industria a fini commerciali ma è prodotta e divulgata spontaneamente dai consumatori di ogni genere e età, come a voler esibire pubblicamente un frammento valoriale importante e celebrativo della propria vita. Il consumo di bevande alcoliche risulta rivestito di un’aura di desiderabile normalità, collocato all’interno di una dimensione edonistica e scorporato da qualunque eventualità dannosa, per sé o per gli altri. Scatti privati che riguardano le più diversificate situazioni e occasioni di consumo (pasti, festeggiamenti, celebrazioni, momenti di relax o di trasgressione), discorsi a tema, vignette umoristiche che spesso ritraggono bambini con bottiglie di alcolici tra le mani. Molte fotografie vengono pubblicate da minori e li ritraggono in occasioni sociali di consumo. Tutto questo non rientra nelle azioni di marketing ufficiale (pertanto non è vincolato al rispetto di alcuna forma di regolamentazione o legislazione in merito alla promozione delle bevande alcoliche), ma quello che ne scaturisce è un quadro di parole, immagini e suggestioni che risultano di fatto “promozionali”, non un marchio ma un comportamento, consolidando il ruolo sociale dell’alcol e giocando ulteriormente a favore dell’industria.

Sul piano comunicativo inoltre non esiste solo il marketing e, per l’alcol in particolare, il sostegno passa anche attraverso la costruzione di una narrazione positiva. 

In merito all’informazione è facile osservare come, coscientemente o come mera espressione di una matrice culturale favorevole, l’immagine e il ruolo sociale dell’alcol non vengano mai perturbati. Vengono fornite per lo più notizie di cronaca o informative che riguardano gli effetti di un consumo di bevande alcoliche ritenuto eccessivo, occasionale o continuativo che sia, ma eccessivo: gli incidenti stradali in stato di ebbrezza, i reati commessi in stato alterato, la diffusione di dati nazionali sull’”alcolismo” o sul binge drinking giovanile. Il consumo considerato moderato risulta protetto e la suggestione a cui siamo costantemente sottoposti, che si traduce in un sottile incentivo al consumo, non intaccata. 

Non esistono, se non in canali di nicchia, riferimenti ad altri elementi culturali che ruotano intorno al mondo dell’alcol, come appunto le informazioni relative a discutibili strategie di marketing (creazione di nuovi prodotti per nuovi target, come i minori o le donne, sponsorizzazioni, eventi culturali rivolti ai giovani, evidenze sugli effetti dell’esposizione dei giovani alla pubblicità), o all’attività di lobbying agita dall’industria a livello politico e attraverso la produzione di prove pseudoscientifiche, o alla insufficiente legislazione vigente, o ai dati epidemiologici in merito ai danni correlati al consumo ritenuto moderato. 

Non hanno avuto alcuna eco, per esempio, l’outing nel 2012 di Dipak Das, lo scienziato passato alla storia per aver “finalmente” provato scientificamente i presunti effetti benefici e antiossidanti del vino, che ha dovuto confessare di aver falsificato oltre 145 dati di ricerche poi ritirate (la ricerca è appunto in larga parte finanziata dai produttori), né le smentite relative al cosiddetto “paradosso francese”, che attribuiva al vino il ruolo di cardioprotettore in una regione francese in cui l’incidenza per malattie cardiovascolari era relativamente bassa a fronte di elevati consumi di alimenti ricchi di grassi saturi. E continua a non avere molta risonanza nemmeno l’allarme per il progressivo stravolgimento delle zone collinari venete e friulane indotto dalla viticoltura intensiva finalizzata alla produzione del Prosecco Docg, a discapito di superfici prative, boschive e di altre colture, che ha determinato un forte aumento dell’impiego di pesticidi che si riversano sul territorio (11,7 kg per ettaro contro una media nazionale di 4,9 kg) e che, secondo una recente ricerca dell’Università di Padova, è correlato ad una crescita dell’erosione del suolo potenziale che raggiunge le 43,7 tonnellate per ettaro all’anno (un valore di 31 volte superiore alla soglia prevista dalla Comunità Europea). E ancora, nonostante tutti siano a conoscenza degli emendamenti ai provvedimenti inseriti pochi mesi fa nel Piano Europeo sul Cancro, inizialmente approvati (l’introduzione di avvertenze sulla salute sulle etichette delle bottiglie, un aumento della tassazione sulle bevande alcoliche, regole più stringenti sulle sponsorizzazioni), in pochi immaginano il pressante lavoro di lobbyng agito dal mondo dell’industria e della politica per arrivare ad incidere a livello europeo sul tentativo di allinearsi alle evidenze scientifiche disponibili da anni e alle linee guida indicate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Il risultato di tutto questo è una significativa assenza nello spazio pubblico di una riflessione critica e di un dibattito serio sull’alcol, che si sottragga alla suggestione collettiva sul tema per essere riconsegnato ad un’analisi competente dei meccanismi culturali che favoriscono la normalizzazione del comportamento del bere. 

Questo potrà accadere quando lo sforzo di decostruire falsi miti e di divulgare evidenze scientifiche prodotte da una ricerca indipendente non verrà più letto come un tentativo moralista e semplificatore di demonizzare un comportamento, ma come una preziosa opportunità di effettuare scelte più consapevoli. Quando lo svelamento delle contraddizioni insite nella gestione sanitaria, sociale, economica e politica delle problematiche alcolcorrelate, fondate su conflitti di interesse inconciliabili con le istanze di salute pubblica, riuscirà ad incrinare una narrazione collettiva favorevole e consolidata, rendendola più sfaccettata e meno scontata. Quando il mondo dell’informazione imparerà anch’esso nuovi linguaggi, aprendo ad una prospettiva più ampia che si sganci dalla mera cronaca per introdurre ad un’analisi multifattoriale che metta in evidenza i complessi meccanismi sottostanti la normalizzazione del comportamento alcolico.

Letture suggerite

  • AAVV (2021). I sette messaggi chiave dell’industria dell’alcol, seconda edizione. Pubblicazione indipendente (traduzione a cura di Ass. Eurocare Italia)
  • Marcomini F. (2010) No alcolismo, no alcolisti, siamo persone. Autorinediti
  • Baraldi E., Sbarbada A., (2009). Vino e bufale. Stampa Alternativa