Non è tutto oro quel che luccica…
Salvare le apparenze, arrendersi alle evidenze. La messaggeria dei sensi.
Il punto di partenza del mio contributo al Seminario di domenica 12 febbraio 2023 nasce dall’incontro del sabato precedente proposto dal Centro Universitario di Padova, con la Relazione del professor Vincenzo Fano (Università di Urbino) dal titolo “Quanto è ingannevole ciò che ci appare? Un dialogo epistemologico fra fisica e psicologia della percezione”, il settimo delle Questioni Filosofiche di quest’anno, dedicato al tema dell’Inganno. Un fenomeno complesso, alla cui definizione concorrono più discipline.
Nel corso della rassegna, i relatori hanno finora ragionato sull’inganno come forma endemica alla condizione umana, meno sulle sue manifestazioni nella natura per così dire extra-umana (pensiamo al camouflage nel mondo animale o al mimetismo morfologico od olfattivo nelle piante). Verità, post-verità, menzogna, intenzionalità, finalità cosciente, autoinganno, sono alcuni dei punti di vista che sono stati esposti e presentati alla discussione.
Nella conferenza citata si è affrontato, per quanto ho potuto capire, soprattutto la teoria della percezione dei sensi come rappresentazione. Osservare il mondo esterno (al soggetto) attraverso i sensi è stata la prima forma di scienza: la veridicità dei sensi, la loro accuratezza o fallacia non inficia che siano l’unico accesso alla realtà. Ciò pone tuttavia più di un problema. Basti pensare, per esempio, alle disabilità sensoriali, prima fra tutte quelle relative alla vista. Quando “l’occhio è in gioco” – come ricorda il titolo di una mostra ancora in corso a Padova – possiamo parlare di “ipoverità”?
La riflessione sulle apparenze attraversa il pensiero filosofico dall’antichità, per l’Occidente quella greca, la cultura che privilegia il nitore e si incentra sull’asse comunicativo prima-terza persona (io/lui-ciò) quindi – in senso ampio – sulle strutture permanenti della realtà di cui l’uomo ha esperienza costante, uniforme, permanente rispetto al variare dei fenomeni. Un movimento verso l’astrazione “oggettiva”.
Ancor più la tragedia greca, che in principio era costituita da lunghi monologhi con pochi personaggi, si fa testo dialogico. Il dialogo socratico mostra la compresenza di agone e maieutica: l’“estrarre” una conoscenza da chi crede di non sapere e mostrare l’insussistenza delle convinzioni errate in chi crede di sapere. Non c’è un dialogo socratico sui dialoghi, nessun metalogo alla Bateson per intenderci, perché il metalinguaggio conduce ai paradossi e alla loro difficoltà, ma l’applicazione pragmatica della contesa dialogica.
Il dialogo biblico, per converso, mira a determinare comportamenti e a giudicarli, più che a stabilire la conoscenza di qualcosa. L’Altro e la sua identità si incontrano nella responsabilità e nella risposta. Gesù, il Dio che si è fatto carne (Gv 1,14) vive la Parola e dialoga con amici e nemici, si fa servitore e non soggiace alla schiavitù.
Tornando alla filosofia, essa nasce e vive nella ricerca della Sapienza perduta. O, per dirla con le parole del professor Andrea Tagliapietra nella sua esposizione “Il teatro della bugia”, nel ciclo di conferenze di cui sopra dell’8 ottobre 2022, “Filosofia è il discorso che mette in discussione l’ovvio”.
Lo andiamo dicendo nelle nostre riflessioni, forse non abbastanza: è nella cosiddetta normalità che possiamo osservare i fenomeni. È proficuo apprendere dagli errori delle catene deterministiche, quelle che sembrano più profondamente radicate nelle nostre menti? Credo di sì, penso non dobbiamo stancarci di scomporle, agendo culturalmente e politicamente per illuminarle di uno sguardo nuovo sul pregiudizio.
Un solo esempio, che può parlarci del nostro stile di vita e delle abitudini: la “conta dei giorni” al Club, che sembra rincuorarci aggiungendo i “più 7” di settimana in settimana. Forse è un indicatore che come tale dice ancora troppo poco… Sono grata a coloro che scelgono di considerare altri comportamenti compresenti alla scelta di non consumare alcol, indicando la possibilità di seguire un processo, meno puntuale e misurabile, dunque, ma più fecondo perché ci guida all’osservazione della complessità delle relazioni nel loro contesto di appartenenza. Guardano alla “sapienza del cuore” invocata dal salmista (Sal 90,12).
Ma è tempo di accennare al pregiudizio, che si è pensato di affrontare oggi al seminario. I dizionari chiariscono che si tratta di un’opinione, la dòxa dei Greci, un pensiero soggettivo che suggerisce che esista una conoscenza, l’epistème.
Un punto di partenza, pertanto, che ci costituisce come eredità indiscutibile e che ci fa inciampare a più riprese, ogni volta che lo alimentiamo co-costruendo i contesti relazionali che abitiamo. Che sia rivolto a singoli o a comunità sociali considerate con sfavore e con odio, aggressività, malevolenza – semmai sia possibile separare diabolicamente fra l’uno e i “molti” – il nostro atteggiamento, la nostra postura incardinata ai pregiudizi appare chiusa e ripiegata, trincerata ed esaltata nell’egocentrismo. Manipolatori di noi stessi, riponiamo fiducia nell’inquietudine del pre-giudizio, se siamo capaci di coglierla, non un riposo o una messa fra parentesi (epochè, sospensione del giudizio, come ripreso da Husserl) che ci consenta di sospendere cose e realtà per concedere a noi e a all’altro la possibilità di dialogo.
Inganno e ipocrisia vivono anche nel discorso scientifico, esistono forme di inganno mascherate da verità scientifiche: la recente polemica sulle etichette originatasi dalla proposta irlandese di porre avvertenze sanitarie con richiami alla tossicità dell’alcol, ha visto i paesi mediterranei europei (Italia, Francia, Spagna) dare eco a posizioni francamente poco difendibili, espressione di consenso alle ragioni del mercato, del consumo, della difesa strenua di argomentazioni propagandistiche.
Resta da chiedersi, come è stato affrontato in una recente trasmissione di Radio Cooperativa in onda il 14 febbraio scorso, quale sia non solo l’atteggiamento del mondo dei Club nella sua variegata composizione, se frutto di un conformismo acquiescente, come avanzava Lorena Carpi (sintetizzo, naturalmente, la portata del suo intervento), ma anche le pratiche professionali e di servizio più opportune che incarnano solidarietà, amicizia, amore, rispetto della diversità (come difeso da Claudio Zorzi). Entrambi mi correggeranno se ho male interpretato il senso dei loro contributi.
Se il pregiudizio è un errore, come lo correggiamo? Gli affianchiamo un analogo rifiuto del pensiero altrui, di posizioni diverse, o ci sforziamo di considerarlo appunto come uno stadio del pensiero (veloce) e della coscienza, passibile per così dire di riconsiderazione critica e aggiustamento?
La potenza auto-indotta dal pregiudizio, il suo vincolo con la paura e la diffidenza verso le forme di conoscenza autentica che sempre sottende, possono infrangersi come onde pur maestose e fragili se convertite alla ricerca instancabile verso vie di speranza, idee che crescano e maturino (lentamente), aperte al dubbio e non inclini a scorciatoie che per evitare l’angoscia del dubbio ci lascino indifferenti e soli.